Della palla non se ne seppe più niente per giorni.
Fu ritrovata in un fosso ad almeno 50 metri dal campo di gioco, e quelli che non conoscevano Toma pensavano che non ci fosse arrivata da sola. Gli altri, continuavano a credere nel mito.
Negli spogliatoi i ragazzi stavano ancora esultando per la vittoria urlando sotto le docce, ma Toma stava in disparte.
Sorrideva alle pacche sulle spalle ed ai 5 sul palmo della mano come ogni buon capitano, era artefice del loro trionfo e del resto non voleva deluderli, però quel giorno era preoccupato e non si esaltava come sempre sentendo scandire il suo nome.
Di solito amava essere al centro dell’attenzione, in campo come in aula o in compagnia degli amici, e una parte di lui esisteva in funzione del potere che aveva il suo nome sulle labbra di tutti. Toma, ti amano, pensava. Si sentiva bene.
Ora però, lo stato d’ansia latente era sbocciato come un fiore nero dalla neve. Non gli era più possibile ignorarlo.
Lui stava crescendo, nel senso letterale della parola. “Lui-stava-crescendo”.
All’inizio per lui si trattava di una normale fase dovuta all’età, anche se 22 anni bastavano per capire che era una possibilità remota, ma non aveva motivo per non crederci. Sapeva ormai tutto su ormoni e sistema endocrino, perché si era informato sin da quando aveva avuto i primi sospetti. Ma non si trattava solo di altezza ora, almeno non più.
Aveva una tabella Excel fra i suoi files, trovata in un sito per lavori di sartoria, dove annotava le misure di spalle, torace, vita, fianchi e braccia, e in due anni aveva raccolto dati sufficienti.
Si stava espandendo, prima lentamente e poi sempre più in fretta.
Aspettava solo il giorno in cui qualcuno gli avrebbe detto “Hey Toma, bei risvoltini”.
Si rivestì in fretta ed uscì dalla palestra, mentre dentro ancora intonavano cori.
Una volta a casa si immerse nei suoi calcoli e perse la nozione del tempo, ma da qualsiasi parte la guardasse, la situazione era la stessa. La crescita era passata da lenta e costante ad esponenziale. Non poteva più chiudere gli occhi.
Seduto in cucina decise di passare ad un nuovo tipo di approccio. Doveva trovare la causa scatenante, il fattore che stava accelerando la sua crescita, così si mise ad incrociare i dati che aveva raccolto con il susseguirsi di eventi che lo avevano coinvolto.
Partite, allenamenti, uscite con gli amici, impegni universitari, le ragazze che aveva visto, analizzò qualsiasi cosa avesse fatto. Il risultato fu nullo. Non trovò nessuna evidenza, nessuna coincidenza che potesse aiutarlo a capire.
Frustrato e incapace di proseguire Toma spazzò via dal tavolo fogli e tabelle e si mise a battere i pugni sul tavolo, inutilmente.
Chinò la testa sulle braccia e ripensò all’eco degli incitamenti dei suoi amici in campo, o delle ragazze sdraiate sotto di lui. Sapeva fare bene un sacco di cose. E tutti gli tributavano il giusto onore.
Improvvisamente si rialzò, deciso ad ignorare tutto fino a dopo la finale di campionato che avevano l’indomani. Aveva un impegno, e lo avrebbe onorato. Dopo sarebbe andato da un medico, se avesse trovato il coraggio. Sembrava sensato.
Il giorno dopo fu il giorno dei record, nessuno aveva mai fatto come loro, e Toma come sempre ebbe da solo metà dei meriti. Alla fine della partita dagli spalti partì una coreografia rivolta solo a lui, che commosse tutti. E fu in quel preciso momento che Toma vide le sue scarpe da calcio iniziare a cedere e ad aprirsi lungo le cuciture, come in un brutto film horror.
Terrorizzato, percepiva dentro di sé l’urto della crescita inarrestabile. E allora tutto gli divenne chiaro.
Ogni volta che pronunciavano il suo nome, il suo corpo si espandeva, ogni sua cellula si moltiplicava all’ennesima potenza. Era destinato a non smettere più, o almeno, non fino a quando non fosse stato così amato…
Si svegliò urlando, ancora sdraiato sul tavolo di cucina. Si guardò intorno, rendendosi conto che non era più allo stadio ma a casa sua. L’incubo da cui per fortuna era appena uscito era stato orrendo ma illuminante.
Adesso Toma sapeva esattamente cosa doveva fare.
Prese le chiavi del suo furgone e quelle di casa dei suoi genitori. Sapeva cosa cercare e dove. Nel garage di suo padre, in un armadio blindato, cose a cui fin da bambino era stato proibito avvicinarsi.
Con quelle avrebbe messo fine all’incubo, si sarebbe assicurato che nessuno potesse o volesse mai più urlare il suo nome, se non con odio e disprezzo.
Nessuno lo avrebbe più amato, e lui avrebbe smesso di sentire dentro di sé l’agonia della crescita.
“Dovete smetterla…” pensò, mentre entrava nel refettorio del campus, puntando al primo gruppo seduto accanto alla finestra…